Intervista alla professoressa Rosalia Sciortino sul volume intitolato “Who cares? COVID-19 social protection response in South East Asia”, Prima Pagina News

Dal nostro corrispondente a Bangkok – 15 ago 2023 (Prima Pagina News)

Tematiche particolarmente interessanti ed attuali contenute nel volume “Who cares? COVID-19 social protection response in South East Asia”, che contiene gli esiti di una ricerca che ha cercato di capire quali sono state le esperienze della popolazione nel Sudest dell’Asia con la pandemia e che misure sono state prese per migliorare gli impatti del COVID-19 e con che risultati.

La professoressa Lia Sciortino è Associate Professor, Institute for Population and Social Research (IPSR), Mahidol University, Visiting Professor, Master in International Development Studies (MAIDS), Chulalongkorn University, Founder & Director SEA Junction (seajunction.org), Emeritus Regional Director IDRC and Rockefeller Foundation. Il suo punto di vista in termini esperienziali e di studio su tematiche relative alla ricerca sociale, quindi, è di assoluto rilievo. Così come il lungo e laborioso lavoro che si è poi condensato nel volume “Who cares? COVID-19 social protection response in South East Asia”, che illustra come il Sud Est Asia abbia risposto alla pandemia da Covid e quali aspetti e indicazioni di percorso sull’operato dei servizi sanitari locali siano stati rilevati attraverso questo specifico studio.

Il titolo del volume è volutamente provocatorio e di duplice lettura. In effetti, davanti ad un evento epocale qual è stato -ed è – la diffusione del COVID, ci si chiede chi debba prendersene cura e a chi interessa la questione. Può descriverci la genesi di questo studio e quali sono stati i temi principali sui quali ha voluto puntare fin dall’inizio?

Si, il titolo “Who Cares?” ha molteplici significati visto che si riferisce al prendersi cura delle persone durante la pandemia, in questo caso con politiche di protezione sociale ma anche si domanda se veramente ci sia qualcuno interessato a migliorare le condizioni dei più bisognosi. Il progetto di ricerca regionale in sei Paesi del Sudest dell’Asia, i cui risultati sono presentati nel libro, è iniziato con la consapevolezza che il COVID-19 è una crisi multidimensionale non solo salutare avendo scosso, squilibri sociali ed evidenziato la precaria architettura di sistemi politici, economici e ambientali. La pandemia ha amplificato le disuguaglianze e approfondito le fratture lungo le divisioni di occupazione, classe, genere, etnia e cittadinanza, causando impatti diversi per le varie popolazioni e gruppi. La ricerca ha cercato di capire quali sono state le esperienze della popolazione nel Sudest dell’Asia con la pandemia e che misure sono state prese per migliorare gli impatti del COVID-19 e con che risultati. Studiando i primi due anni della pandemia (2020-2021) abbiamo esaminato le politiche e i programmi di protezione sociale allo scopo di ottimizzarli mentre la conseguenza della pandemia continuano, anche se in modo meno drammatico, e per prepararsi meglio alle future pandemie nella regione.

L’aspetto sociale ed economico è particolarmente importante per una regione dove, con l’eccezione di stati peninsulari e sovrappopolati come l’Indonesia e le Filippine, il bilancio umano era inizialmente limitato rispetto al resto del Continente e ai dati globali. Tuttavia, i danni socioeconomici del COVID-19 e le drastiche misure adottate per impedirne la diffusione sono stati enormi, particolarmente per i più svantaggiati.

Colte alla sprovvista dall’entità della crisi, le società sono state sfidate ad aumentare velocemente i livelli minimi di protezione sociale. Questo libro registra le risposte della regione e gli sforzi dei governi per rilanciare le loro economie e fornire aiuti pubblici, stanziando un livello senza precedenti di risorse per soddisfare le crescenti esigenze delle popolazioni e raggiungere gruppi precedentemente trascurati. Tuttavia rimangono interrogativi sulla misura in cui politiche e programmi di protezione sociale sono riusciti ad affrontare gli impatti sanitari ed economici che hanno colpito in maniera sproporzionata i più svantaggiati. li titolo chiede provocatoriamente: le decisioni sul governo della pandemia sono state orientate al bene comune ed è stato fatto abbastanza per garantire il benessere degli emarginati nelle nostre società, i poveri e gli esclusi sociali? In conclusione si nota un paradosso che quelli con più bisogno sono pure stati i più trascurati e si raccomandano cambi strutturali se e quando ci sarà la volontà politica di risolvere questo paradosso.

Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Tailandia e Vietnam sono le Nazioni prese in considerazione in questo studio, il Myanmar -per ovvi motivi – non è stato possibile inserirlo. Ebbene, a fronte del dilagare della pandemia da COVID, come ha “risposto” il Sud Est Asia e se ci sono state esperienze locali da annotarsi quali sono state?

Gli studi dei sei Paesi sono stati condotti da gruppi di ricerca locali a cui io ho contribuito come autrice (in particolare per l’Indonesia e la Tailandia) ma soprattutto come dirigente del progetto e responsabile dell’analisi panoramica regionale (primo capitolo). Abbiamo usati metodi qualitativi con interviste richiedendo una presenza sul campo anche nel bel mezzo della pandemia con tutte le restrizioni del caso. Il Myanmar e stato considerato sin dall’inizio visto la significanza dell’epidemia e di politiche di protezione sociale in un Paese con limitate risorse ma il colpo di stato ha impedito la conduzione della ricerca. Siamo stati costretti a ripiegare sulla soluzione di includere informazioni sul Myanmar nel capitolo regionale quando possibile. Nella mostra relativa al progetto che si farà a fine Ottobre a SEA Junction siamo però riusciti a includere anche la Birmania grazie a un fotografo birmano che ha documentato i terribili impatti della pandemia con un numero di morti in eccesso molto maggiore rispetto alle stime ufficiali.

Ogni Paese è diverso e ci sono variazioni sui contesti, il livello di infezione e le misure introdotte. Ma si possono fare un numero di generalizzazioni sulle risposte prese (che non sono necessariamente solo tipiche dell’Asia del Sudest ma sicuramente sono state enfatizzate in questa regione). Primo bisogna dire che malgrado l’investimento di risorse in programmi di protezione sociale sia stato eccezionale rispetto agli anni e crisi precedenti, rimane di basso livello in un contesto globale anche a confronto di economie con simili caratteristiche, dimostrando che benessere sanitario e sociale della popolazione non è ancora una priorità dei governi. Si nota pure che -dopo investimenti significativi nel primo anno con le aspettative che la crisi sarebbe durata poco- nel secondo anno i fondi per i programmi di protezione sociali (in molti Paesi prestati da banche mondiali o dati come aiuti bilaterali), il secondo anno sono stati molto ridotti, ironicamente proprio quando il bisogno è stato decisamente maggiore, vista la distruzione umana e materiale causata dalla variante Delta nella regione.

È importante anche sottolineare che la pandemia ha mostrato l’insufficienza dii sistemi di protezione sociale nazionale che si concentrano sui lavoratori formali con assicurazioni sociali e pensioni e talora sui più poveri con sussidi ma lasciano scoperti una gran maggioranza dei lavoratori che operano nell’economia informale. Questa è molto e molto più estesa che non nei Paesi occidentali. Nel 2022 è stato estimato che ci sono nel Sudest dell’Asia circa 244 milioni di lavoratori informali (quindi non o non sufficientemente coperti da contratti regolari), equivalente a ben il 78,6% dell’intera forza lavoro (con età a partire da 15 anni) della regione (ASEAN 2022), spesso donne con lavori domestici e di care-takers (sia in famiglia che fuori). Questi lavoratori informali che sono attivi nei settori più importanti dell’economie della regione come i servizi, la manifattura e l’agricoltura, sono stati i più colpiti dalla pandemia. I governi si sono dovuti affannare per cercare di coprirli espandendo programmi esistenti o creandone di nuovi ma- non essendoci strutture di supporto- spesso gli sforzi sono stati insufficienti e a volte vani.

Un altro punto di comunanza tra i maggiori Paesi di destinazione per flussi migratori intra-regionali, Tailandia, Malesia e Singapore, e nell’esclusione di migranti stranieri che contribuiscono sostanzialmente alle economie locali e così pure dei rifugiati. Non solo sono stati trattati come capri espiatori della diffusione della malattia, e segregati, infetti e non in dormitori e area ristrette con la strategia di “bubble and seal” o “bolla e sigillo”, ma non hanno ricevuto la dovuta protezione sanitaria e nessun aiuto economico (anche quando senza lavoro e impossibilitati a tornare a casa). L’Indonesia è il solo Paese tra quelli studiati che non ha fatto discriminazioni tra cittadini e stranieri nella distribuzione di maschere e vaccini, ma nel sociale anche li gli aiuti pubblici sono stati assenti.

In tutta la regione, poi, si nota un approccio centralizzato con un controllo rigido dei confini aerei, con estese quarantine mandatarie ma attenzione molto minore per i confini di terra molto più facili da attraversare. Una maggioranza di governi ha presentato il COVID-19 come una questione di minaccia alla sicurezza nazionale facendone uso per trascurare i diritti personali, esercitare un maggiore controllo sui media e sullo spazio civico e introdurre tecnologie invasive (che dopo il COVID-19 sono rimaste). Allo stesso tempo è stato notato un ruolo essenziale svolto da individui, gruppi comunitari e società civili nell’alleviare le mancanze dello Stato. Hanno difeso i diritti dei più deboli, prodotto e diffuso informazioni utili, condotto lavori umanitari, forniti servizi sanitari e assistenziali, raccolti fondi, aiutato durante isolamenti e funerali e donato aiuti, maschere, alcool e cibo. Malgrado le restrizioni epidemiologiche e politiche l’assistenza cha hanno fornito è stata la più immediata, flessibile e capillare durante la pandemia.

A differenza dei sistemi sanitari nazionali in Occidente, in special modo in Europa, dove l’apparato pubblico sopperisce -in differenti modi- alle carenze sociali ed economiche, in Sud Est Asia, la Sanità è materia gestita molto diversamente da canoni per noi occidentali ritenute “usuali”. Può descriverci meglio quanto abbiano inciso le differenze sociali ed economiche nella lotta al COVID in Sud Est Asia?

Sul campo medico è necessario notare che soltanto la Tailandia ha programmi di copertura sanitaria universale, con altri Paesi coprendo soltanto porzioni della popolazione. Per compensare a questa deficienza la prevenzione, cura e vaccinazione del COVID-19 è avvenuta attraverso fondi e programmi nuovi. Le differenze sono state soprattutto nella prevenzione, visto che membri dei gruppi socio-economici più bassi non hanno potuto isolarsi in ambienti piccoli e affollati, hanno dovuto operare in lavori precari e a rischio di infezione per sopravvivere (nella GIG economia), hanno avuto meno accesso a maschere, alcool etc. e le misure per salvaguardare questi gruppi sono state spesso abusive, inefficaci se non controproducenti (come forzare migranti infetti e non nella stessa località). Nel curare, qui come in Europa, sono stati soprattutto gli ospedali e specializzate strutture pubbliche a occuparsi dei malati di COVID-19 di ogni ceto (anche se contatti sociali hanno facilitato accettazione nei periodi di picco).

In generale, si può poi dire che c’è stata una carenza di fondi pubblici per i test diagnostici che ha contribuito al numero basso di test del Sudest dell’Asia rispetto ad altre regioni. Le differenze tra Paesi sono sostanziali con la ricca Singapore con un numero molto basso di morti rispetto al numero di infezioni, mentre altri Paesi con meno risorse hanno avuti alti numeri di morti rispetto alle infezioni. E questi possono essere ancora più alti se si contano le morti in eccesso non documentate dai governi. La fragilità dei sistemi sanitari è dimostrata pure dall’alto numero di medici, infermieri e altro personale sanitari vittime della pandemia, con l’Indonesia col triste record di fatalità.

Ad oggi, dopo aver superato il picco alto della pandemia da COVID, un momento storico epocale, qual è la lezione che il Sud Est Asia ha tratto da tutto questo?

In conclusione il libro propone varie riforme del sistema del lavoro e della protezione sociale, tra cui il riconoscimento formale del lavoro precario e -per le donne di grande importanza- del lavoro domestico e una base di protezione o reddito minimo universale per l’intera popolazione. Anche oggi una rapida ripresa economica sembra improbabile e la necessità di salvaguardie economiche in crescita. Per adesso, questo aspetto è rimasto una preoccupazione secondaria con i governi interessati ad accelerare la ripresa economica (in particolare del settore turistico). Tuttavia, nessun recupero potrà essere completo senza l’inclusione di ogni settore e segmento della società. Come i governi della regione avevano iniziato a riconoscere prima della pandemia, attenzione al settore sociale e il benessere delle persone è la chiave per realizzare società stabili e sviluppo sostenibile e il COVID-19 l’ha confermato.

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