Come il coronavirus sta distruggendo l’economia delle tigri asiatiche, Espresso Repubblica
Fa meno morti in percentuale dell’influenza comune. Ma il panico del contagio partito dalla città di Wuhan si sta diffondendo nei paesi vicini, Tailandia, Cambogia, Myanmar, Laos, durante la stagione turistica a ridosso del capodanno cinese, fra alberghi vuoti e nuovi casinò in ritardo.
Sabato 25 gennaio, vigilia del nuovo anno del Topo secondo il calendario cinese, l’Asia scende in strada per la festa. A Bangkok, capitale della Thailandia che ospita la più antica e la più numerosa comunità cinese del mondo (10 milioni di persone), gli eventi iniziano fin dal mattino, con la temperatura già sopra i 30°. Dalla nuova fermata della metro di Wat Mangkon un fiume di gente vestita di rosso bene augurante si dirige verso Yaowarat road, lo stradone che taglia Chinatown. I demografi hanno appena annunciato che la specie homo sapiens sapiens ha superato quota 8 miliardi. I vicoli attorno a Yaowarat, con la loro impenetrabilità tendenziale, sono il posto giusto per accorgersene.
Il viale è in gran parte chiuso al traffico automobilistico, incubo quotidiano a Bangkok, per accogliere le sfilate dei dragoni e i baracchini con il migliore cibo di strada del mondo che vendono qualunque cosa, dai dim sum agli spiedini di carne, dalle uova di calamaro ai coleotteri fritti, per l’equivalente di uno o due euro a porzione. Fra i clienti ci sono anche decine di migliaia di farang, il dispregiativo thai riservato agli occidentali che ogni anno riempiono la capitale, le isole del golfo e le spiagge del Mare delle Andamane.
I bianchi osservano straniti la gente del posto che scatta selfie assurdi. I volti sono irriconoscibili perché coperti da una mascherina medicale nelle due principali versioni, quella di lusso con il filtro e quella da 10 baht (30 centesimi di euro) che è un pezzo di stoffa con due elastici. Trovarne in giro è già quasi impossibile e le farmacie espongono cartelli bilingui “no masks”. Come molte megalopoli dell’Asia e come alcune città europee che si limitano a ignorare il problema, Bangkok deve affrontare un’emergenza polveri sottili da migliaia di morti all’anno. Le mascherine qui non sono una stranezza in assoluto.
Ma il 25 gennaio sono sette settimane che a Wuhan, una città della Cina centro-meridionale, si è manifestata una forma influenzale nuova. Ad accorgersene fra i primi è stato Li Wenliang, un oftalmologo di 34 anni che le autorità della Repubblica popolare accuseranno di allarmismo e metteranno a tacere. Il dottor Li farà in tempo a vedere la sua riabilitazione e la sua trasformazione in eroe nazionale prima di contrarre il virus il primo di febbraio. Morirà sei giorni dopo.
La notizia dell’epidemia è su tutti i giornali del mondo, Thailandia inclusa, e i lunghi festeggiamenti del Capodanno saranno vietati o accorciati in molte zone dell’area. A metà febbraio il governo thai, guidato dall’ex comandante delle Forze armate Prayut Chan-o-cha dopo uno dei tanti colpi di Stato militari degli ultimi quindici anni, dichiara meno di quaranta infettati e nessun morto. Ma è chiaro che i contraccolpi vanno al di là dell’allarme sanitario. Spiagge e alberghi si svuotano. Si cerca un colpevole.
Il ministro della Salute Anutin Charnvirakul in un tweet ha accusato della diffusione del virus “ai puak farang”, cioè i “maledetti occidentali” che, a differenza degli asiatici, si rifiuterebbero di indossare le mascherine messe a disposizione dalle autorità sanitarie. Il ministro si è poi scusato della sparata razzista e il 30 gennaio ha smentito che il capo del governo Prayut avesse altro che un semplice raffreddore.
In Thailandia e nei paesi della cintura a sud della Repubblica popolare (Laos, Myanmar, Cambogia) si reagisce all’emergenza in modo composto, diversamente dall’isteria cresciuta in Italia intorno ai due turisti ricoverati all’hotel Palatino di Roma e interrotta soltanto da causa di forza maggiore, il festival di Sanremo.
Dal Capodanno del Topo alle settimane successive sono stati introdotti i controlli con i termometri digitali negli aeroporti principali (Suvarnabhumi, Phuket, Chiang Mai), le sale di emergenza e i punti di quarantena. Oltre alla speranza che i ricercatori trovino una soluzione, è ragionevole un certo ottimismo empirico sulla virulenza della malattia al di fuori del suo epicentro, altrimenti la festa del 25 gennaio a Yaowarat, in condizioni di promiscuità eccezionali, si sarebbe saldata con centinaia, forse migliaia di ricoveri. Ma il corona virus in poche settimane sta cambiando faccia all’Asia, soprattutto nelle relazioni sociali e produttive fra la grande madre Cina, seconda economia globale dopo gli Usa, e i dieci paesi dell’orbita Asean (Association of South East Asian Nations) che senza la Cina e senza le loro comunità di origine cinese hanno poche speranze di crescita.
Rosalia Sciortino vive da trent’anni fra Indonesia e Bangkok dove insegna Sviluppo internazionale. L’antropologa palermitana ha fondato Sea Junction, una struttura di comunicazione socioculturale per promuovere gli scambi fra studenti, specialisti e semplici innamorati del Sudest asiatico. La sua sede è al Bacc (Bangkok art and culture centre) un edificio di nove piani che ospita mostre e mercati artigianali accanto al centro commerciale Mbk, nella zona del National Stadium e della casa-museo dell’imprenditore e agente della Cia, Jim Thompson.
«In questi anni», dice Sciortino, «la Thailandia ha un po’ perso il ruolo di locomotiva della regione ma c’è una giovane generazione molto agguerrita, soprattutto fra le donne che scelgono la politica e rifiutano il matrimonio per non finire oppresse dai ruoli della famiglia tradizionale». Il Coronavirus può offrire coesione a un governo in difficoltà.
CASINO’ A LAOS VEGAS
Salendo a nord da Bangkok, il gigante cinese si avvicina. Il Mekong è uno spettacolo maestoso nel Triangolo d’Oro al confine fra Myanmar, Thailandia e Laos, dove una volta regnava il signore dell’oppio Khun Sa con il suo esercito privato. Oggi il narcotrafficante è ricordato da un museo a Bhan Thoet Thai, vicino all’enclave cinese di Mae Salong, sui costoni di giungla a gobba di cammello che dividono Thailandia e Myanmar. Nei mercatini di Mae Sai, la città del confine thai-birmano, le lunghe pipe da oppio in argento sono vendute come pezzi di antiquariato e i commercianti vantano il migliore caffè dell’Asia da quando i programmi di sviluppo dell’Adb (Asian development bank) hanno finanziato la riconversione dalla agricoltura dei papaveri.
La guida turistica Mexi viene dalla regione orientale dell’Isaan in Thailandia, una delle più povere del paese, e racconta che fino a pochi giorni prima i turisti della Repubblica erano dovunque. Ad attirarli erano i due poli ben visibili dalla riva thai del grande fiume. Sulla costa del Myanmar, l’ex Birmania coloniale di George Orwell, è un palazzone di colore rosso pompeiano, il Paradise resort. Sulla parte laotiana è il Kings Romans, un edificio bianco sormontato da una corona gigantesca e circondato da gru e da siti di costruzione. Sono grandi case da gioco, vietate sul territorio tailandese, finanziate da capitali cinesi e costruite su terreni pubblici dati in concessione per 99 anni da manodopera per lo più birmana tenuta a lavorare in condizioni durissime.
Il piano di sviluppo, che qui hanno ribattezzato Laos Vegas, prevede la realizzazione di un aeroporto internazionale, di altri hotel-residence e di una zona franca. L’andamento del virus potrebbe causare ritardi poco abituali per gli investimenti sotto la regia cinese. Il presidente Xi Jinping ha stanziato cifre enormi per le dighe sul Mekong finanziate per mezzo dell’Aiib (Asian infrastructure investment bank), l’ente creato da Pechino nel 2014 al quale l’Italia ha aderito durante il governo di Matteo Renzi insieme a Francia e Germania. Molte popolazioni che vivono sulle rive del grande fiume hanno contestato il progetto che, fra l’altro, mira a spianare le rapide del corso d’acqua a colpi di dinamite.
In quanto ai casinò, la buriana Coronavirus ha dimezzato il traffico di giocatori in pochi giorni, secondo Mexi che offre anche la sua interpretazione personale e poco simpatizzante sulle origini del virus: i cinesi hanno il vizio di mangiare topolini vivi.
MEMORIE KHMER
È inevitabile che i paesi più piccoli abbiano un rapporto ambivalente nei confronti di un vicino ingombrante, si chiami Cina, Russia o Stati Uniti. In Thailandia il tradizionale senso cinese per gli affari è un tema storico specifico perché i principali gruppi dell’imprenditoria locale sono i Teochew che hanno origine in parte thai e in parte Han, l’etnia più numerosa della Repubblica Popolare.
“Le cinque famiglie”, come sono chiamate, si sono fatte strada dai mestieri più umili nella Chinatown di Bangkok. Fra loro ci sono i Chirathivat del Central group, che nel 2011 ha comprato il gruppo italiano La Rinascente. Un’altra stirpe di miliardari sono gli Juangroongruangkit del Thai summit group. Il secondo figlio della proprietaria, il quarantunenne Thanathorn, è entrato in politica come principale avversario del governo appoggiato dai militari. Il suo partito progressista (Future forward), costituito nel 2018, si è piazzato terzo alle elezioni dell’anno successivo con un forte sostegno da parte dei giovani. Com’è già accaduto a un altro magnate con ambizioni politiche, l’ex primo ministro Thaksin Shinawatra, anche Thanathorn è stato messo sotto inchiesta per non avere dichiarato di controllare una quota di un gruppo mediatico. A novembre ha perso seggio e immunità parlamentare ma continua ad avere un ruolo attivo nella politica del paese come dicono faccia lo stesso Shinawatra, privato della cittadinanza ed esiliato a Dubai con il suo nuovo passaporto montenegrino.
Per adesso il premier Prayut si fa forte, oltre che dell’appoggio dei militari, di buone relazioni con i cinesi, concretizzate dalla partecipazione tailandese alla Belt and road initiative (Bri), il progetto al quale ha anche aderito il primo governo Conte, all’alta velocità ferroviaria fra i due paesi e allo sviluppo del corridoio economico orientale.
Il buon rapporto con la Cina vale a maggior ragione per la Cambogia, ancora alle prese con la lunga ricostruzione che segue la dittatura sanguinaria dei Khmer rossi di Pol Pot, sostenuti da Pechino. Il turismo ha grandi margini di sviluppo per sostenere un’economia che si basa sul dollaro statunitense, con la valuta locale (riel) usata soltanto per dare il resto su valori al di sotto della banconota da un dollaro. Per adesso la Cambogia ha dichiarato un solo caso di Coronavirus ma anche Siem Reap, la città che ospita l’area archeologica monumentale di Angkor Wat, una delle dieci più importanti del mondo, sta assistendo alla ritirata dei visitatori cinesi.
Le guide che parlano mandarino o cantonese non trovano clienti nei dintorni della biglietteria che si apre su 400 chilometri quadrati di giungla dove tremila templi bramanico-buddisti sono stati costruiti dagli imperatori della dinastia khmer a partire dal dodicesimo secolo. Per i turisti, fra i quali molti francesi legati ai ricordi dell’Indocina e ai libri di Marguerite Duras e André Malraux, c’è anche lo spazio di una vita notturna meno scandalosa che in Thailandia ma molto vivace lungo le rive del fiume che taglia in due Siem Reap.
Gli alberghi dell’antica capitale sono stati costretti a rivedere al ribasso le offerte della stagione secca. Tiene duro su prezzi alla portata di pochi il rinnovato Raffles locale. Costruito nel 1932 sulla falsariga del più famoso Raffles di Singapore e piazzato a pochi passi dal museo archeologico nazionale sullo stradone intitolato al generale De Gaulle, l’albergo offre camere doppie per non meno di 400 dollari contro i 50-60 di un ottimo quattro stelle. Il capo dei Khmer rossi Pol Pot, studente a Parigi e ammiratore di Robespierre e Jean-Paul Sartre prima di darsi al genocidio, lo aveva chiuso in quanto simbolo dello sfruttamento coloniale. Da ottobre l’hotel, controllato dalla catena Accor, ha riaperto dopo lavori di ristrutturazione e il concierge è fiero di mostrare i risultati al visitatore italiano, a partire da un impressionante ascensore in tek restaurato. Nella parte sul retro c’è una grande piscina dove una volta si tenevano gli elefanti a disposizione dei turisti per fare il giro dei templi. Tutto è molto lussuoso, molto grande, piuttosto vuoto. La grande ritirata cinese è in corso anche qui e i guidatori di tuk-tuk, i mototaxi che hanno sostituito gli elefanti, si ammassano ai lati della strada nell’attesa inutile di clienti.
Anche per i bianchi è l’ora di tornare. All’alba di lunedì 10 febbraio fra gli italiani a bordo del volo diretto Thai da Bangkok su Malpensa ci sono sicuramente molte più mascherine che all’andata, quando la vacanza era ancora libera di ansie e nessuno si copriva la faccia. All’uscita dell’aereo i passeggeri finiscono in coda per il controllo della temperatura. Alcuni trattengono i colpi di tosse dovuti all’aria condizionata micidiale degli hotel tailandesi. Una signora toscana commenta: «Quindi con 37,1° ti si portano via?»
Non portano via nessuno perché tutti superano il test, per quel che serve. Ci sono già stati casi di Coronavirus asintomatici. Solo una ragazza, dopo essersi esposta con successo al termometro digitale, esita. Torna indietro e dice all’operatore sanitario: «Vengo da Bangkok ma prima sono stata dieci giorni in Cina». L’incaricato è preso alla sprovvista. Risponde senza convinzione: «Mettiti qui da parte. Poi ti guardo».
Source: https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2020/02/18/news/coronavirus-economia-asia-1.344336